21 marzo 2022

LA FELICITÀ SUBITO




Si può calcolare la Felicità, usando un algoritmo per saggiarne l’esistenza e la sua “modica” quantità per vivere bene? Sembra di sì, almeno è quello che fanno i paesi quando associano il Pil e la speranza di vita, definiscono attraverso le politiche di sviluppo e di crescita (che di sicuro non sono la stessa cosa) parametri in base ai quali decidere la qualità della vita e il grado di benessere delle persone. 

Pensate, la Danimarca è al primo posto di questa particolare graduatoria, noi solo al 50°. 


Due obiezioni: ma questi test calcolano pure il numero dei suicidi e id tasso di alcolismo per ogni nazione? E poi è stravagante la metafora di considerare i paesi come persone. Allora basterebbe valicare i confini di quel territorio e scoprire che il proprio stato d’animo e la percezione della realtà sono cambiati in meglio…

Come se non bastasse, fioccano scuole e manuali che provano a istruirci sull’ideologia del comfort e su come raggiungere il benessere in dieci mosse. 

Ma come facciamo a sapere se siamo felici? Spesso accigliati e pensosi esperti provano ad ammonirci sul fatto che invece siamo infelici e sul perché lo siamo. Anche gli scrittori non scherzano, ritenendo che la felicità sia uno stato che si raggiunge attraverso il dolore e la sofferenza.


Tralasciando le altre lingue, è in italiano che il termine Felicità sembra essere assai interessante: la parola proviene dal greco φύω che significa produco, faccio essere, genero (da cui hanno origine i termini fecondo e feto) ed infine al latino foelix o felix, ossia felice cioè fecondo, fertile, ed in senso più lato, soddisfatto, appagato… 

Siamo lontani, come si vede, dall’idea che la Felicità sia una condizione estemporanea, frutto del destino e imputabile alla fortuna. Al contrario, sembra piuttosto il risultato di un’aspirazione concreta, di un’intenzione progettuale, di una volontà di potenza. La Felicità così concepita diventa uno stato di pienezza, un’idea di sé (una coscienza di) che determina quella Gioia che Spinoza definisce nella sua Etica acquiescentia in se ipso, «che nasce dal fatto che l’uomo contempla sé stesso e la propria potenza di agire», e ricompare poi come «la gioia che nasce dalla contemplazione di noi stessi» e che si ripete «ogni volta che qualcuno immagina le sue azioni» o «contempla le sue virtù». Coincidendo con la Felicità, questa forma di acquiescentia si impone inoltre come «la cosa somma che possiamo sperare». La Gioia, in questo caso, sarebbe l’antidoto naturale e più efficace alle c.d. “passioni tristi” (la rabbia, la tristezza, la paura, l’indifferenza) che oggi regnano incontrastate. 


Ma è il caso di chiederci se la Felicità appartenga solo a una dimensione individuale o ce ne sia una anche politica e cioè condivisa, che include la presenza dell’Altro. In un’epoca come questa, contrassegnata da una forma angusta di democrazia immunitaria in cui la protezione securitaria e sanitaria ha preso il posto della partecipazione, sono scomparsi l’Oltre (che sia esso Trascendente, Il Futuro o una qualunque Alternativa credibile all’attuale stato di vita) e anche l’Altro  e ogni cosa ristagna in un clima saturo, statico, dove «il terrore (ancor più con la guerra, dopo la pandemia) è diventato atmosfera». 


La pólis si allontana insieme a tutto ciò che ci unisce. Intorpidimento, dispersione, disaffezione, anestesia prolungata. In un momento così, la Gioia non può più essere rinviata. Ma per riscuoterla occorrono raccoglimento e attenzione, due virtù indispensabili per recuperare il nostro sé.


31 dicembre 2021

IL MONDO IMPOSSIBILE DELL’EMPATIA


Qualche anno fa lo psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto una ‘kantiana’ «critica della ragion empatica» mettendo in discussione che essa possa essere considerata “come una delle forme più evolute del legame sociale”. Va da sé che nei nostri rapporti sociali l’empatia sia, nelle giuste dosi, necessaria e positiva. Ma, si chiede sempre lo studioso lacaniano, “sentire quello che il mio simile sente, condividere i suoi stati emotivi, sentirsi all’unisono è davvero la forma più positiva che può assumere la relazione con l’altro?” Non è invece necessaria una certa quota di freddezza, una ‘sana e giusta distanza? che ci permette di salvare le differenze e le identità di ciascuno? 


Recalcati cita il famoso caso del padre dello scrittore Flaubert (raccontato da J.P.Sartre ne L’idiota della famiglia) che si fece operare dal suo stesso figlio. Risultato: morirà durante l’operazione, “ucciso” dal figlio. Fatto dai risvolti psicanalitici assai intriganti, sui quali Recalcati avanza alcune interessanti ipotesi.


Ma veniamo ai giorni d’oggi. Oggi l’empatia ha assunto i contorni di un’ideologia, in base alla quale l’altro diventa a noi “trasparente”, uguale a noi, totalmente e falsamente omogeneo. Diversamente dalla democrazia che è tutt’ altro che empatica perché non abolisce le differenze anzi di esse si nutre per valorizzarle.

Ma Recalcati va ancora oltre indagando anche sulla relazione genitori e figli. Paventando il pericolo di un “eccesso di prossimità” (i sistemici la chiamano “confusione”) che comprometterebbe la dimensione singolare della libertà e il sacrosanto diritto dei figli a tutelare il mistero (i “segreti”) della loro esistenza. Salutare a suo avviso sarebbe una certa dose di ‘incomprensione’ che crediamo non sarebbe piaciuta a una certa Florence Montgomery, autrice del famoso romanzo “Incompreso”.

In conclusione, lo psicanalista, citando Nietsche, fa appello a un’ “esigenza di oscurità” che sembrerebbe essere la base di ogni rispetto autenticamente altruistico, “mentre un elogio sperticato dell’empatia come capacità di immedesimazione all’altro, vorrebbe invece attenuare la solitudine della nostra singolarità rendendoci tutti più simili”. 

Anche la psicoanalisi ammonisce a sospettare della spinta ad essere tutti uguali, resettando la soggettività delle differenze. Sono celebri le invettive di Jacques Lacan durante gli anni del suo insegnamento, mettendo in guardia dal pericolo di fare di una relazione tra soggetti differenti "una speculare tra simili".


Curioso è la nota di Aristotele sull’invidia che a suo parere si manifesta in maggior misura verso coloro che ci sono più prossimi e non invece con coloro che non conosciamo e ci sono distanti.

Attenti a quella che qualcuno chiamava la “intimità alienata” perchè “saper stare generativamente in un legame significa anche saperne stare sempre parzialmente fuori”. 

I legami più fecondi, conclude Recalcati, e duraturi “si fondano sulla capacità di stare da soli”. Ovviamente ciò non significa che le persone debbano vivere del tutte sole e abbandonate, nella nostra piena indifferenza. Solo che la loro lingua dovrà sempre continuare a rimanerci un po’ estranea….. 

10 dicembre 2021

PETER PAN CHE RITORNA....

È parecchio tempo che questo Blog non pubblica qualcosa, forse perché il pensiero si è sentito annichilito da qualcosa di più grande che in parte ha compromesso l'idea stessa del pensare, anche se nel frattempo chi scrive ha scritto altrove, provando a utilizzare le leggi della compensazione emotiva o qualcuna delle leggi di Murphy. 

Ora è invece arrivato il momento di unire due Blog,  che possono viaggiare gemellati a distanza, e riprendere un po' di cose sistemando, il disordine che in nome dell'entropia è incoercibile e solo modulabile....

Di che cosa può scrivere un counselor di questi tempi che mettono a dura prova la mente e il corpo, tempi uggiosi ma che possono però preludere a qualcosa di nuovo e di migliore? 

Tuttavia non è sempre buona cosa abbandonarsi a forme di entusiasmo che poi la conoscenza delle cose si incarica di smentire....

Mi riferisco in particolare ai caratteri e al sentiment che oggi caratterizza le persone, le loro scelte, il modo in cui risolvono le questioni personali e di relazione.

Mi è capitato di conoscere storie tra i miei pazienti ma anche di amici dei miei amici che sollevano molti interrogativi su come oggi la gente decide di vivere. 

Tom Nichols ha scritto di recente che il nemico delle nostre democrazie siamo noi, individuando nel narcisismo il principale responsabile della sua involuzione. Ma, aggiunge che un altro tratto della nostra condizione è l'infantilismo.

Pensate: oggi sappiamo di fanciulli perenni che continuano a bivaccare presso i propri genitori contestando però aspramente coloro che stando lontano provano ad avvicinarsi alle loro famiglie. Sono sposati ma pur conservando il legame precedente vivono more uxorio con altri uomini o donne, di fatto hanno un amante che fa da marito o moglie in affitto, essendo il doppio di colui che invece è marito o moglie giuridicamente legittimi ma non fa militanza coniugale. 

Sono professionisti ma non esercitano, campano alle spalle di un compagno benestante, o viceversa, separati da tempo non hanno mai deciso di portare a termine un procedimento giudiziario e, con una disinvoltura imbarazzante, i loro nuovi compagni accettano che il loro convivente continui ad essere marito o moglie di un altro/a, dimostrando, si fa per dire, una maturità non comune oltre che una vocazione irriducibile alla cecità.

Quindi oltre al tempo delle passioni tristi dobbiamo annoverare tra gli ingredienti del Tempo la sindrome di Peter Pan che caratterizza un'eterna fanciullezza di chi si rifiuta di crescere, di assumersi responsabilità, di fare delle scelte.


19 agosto 2019

https://www.youtube.com/watch?v=

Un vecchio film di Francois Truffaut Non drammatizziamo è solo questione di corna (mi auguro che qualcuno se lo ricordi, non tanto il film quanto il grande regista francese), ci è venuto in mente leggendo di un libro uscito lo scorso anno di una psicoterapeuta belga sul tema dell’infedeltà (Così fan tutti - Ripensare l’infedeltà). Ma non è di questo che vogliamo parlare, quanto invece dell’ossessione tutta americana di dire e conoscere la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Stiamo parlando, come penso abbiate capito,  di legami di coppia, ossia di quel genere di realtà che è assai difficile definire e inquadrare, che va molto al di là delle identità di ciascuna persona e del loro libero arbitrio. 
Una coppia è un sistema - dicono quelli che la sanno lunga - e tutto ciò che vi accade dentro è al tempo stesso complesso e normale, apparentemente semplice e indecifrabile, misterioso e affascinante. Innumerevoli studi si pure sono affannati nel chiedersi perché scegliamo certe persone e non altre, ammesso che alla base del tutto ci sia una “scelta”, una decisione vera o non invece un insieme di fattori che solo in parte riusciamo a controllare. 
Tornando al punto ci domandiamo: quanto si sarebbe più felici se davvero rinunciassimo all’idea di voler scoprire tutto del nostro partner fino a chiederci, facendo carte false,  se ci è fedele o no, o se, come dice il grande Ludovico Ariosto, siamo del tutto certi di non portare sulla testa quello che lui chiama “l’incarco delle corna” lasciandoci liberi così di avere più motivi di onorare e amare il nostro partner. Il libro di Esther Perel che vive e lavora a New York presenta una casistica imponente e variegata di coppie che, ossessionati dal culto della verità, fanno a gara a rivelare i loro segreti. E allora eccovi due esempi di come questa forma di “narcisismo dell’onestà” possa avere effetti pessimi tanto che, sempre citando il poeta, “se de la moglie sua vuol l’uomo tutto saper quanto ella fece e disse, cade de l’allegrezze in pianti e guai onde non può più rilevarsi mai”. 
Per primo un film, bellissimo, incantevole e tenero (Paradiso amaro di cui vi offriamo il trailer italiano), ma leggero come una brezza che mette in scena il tema del tradimento e del distacco. E’ la storia di un avvocato cinquantenne che scopre grazie alla rivelazione improvvisa e impulsiva della figlia adolescente che la moglie lo tradiva e che stava per chiederle il divorzio. Il guaio è che la moglie è caduta dal motoscafo battendo la testa ed è in coma irreversibile. Si apre allora la caccia all’uomo, venata di atmosfere malinconiche e tragicomiche. Non vogliamo rivelarvi più di tanto della trama del film ma possiamo dirvi che le cose drammatiche che accadono non sarebbero accadute se l’ansia edipica di verità della figlia non fosse prevalsa sulla quieta e credula inconsapevolezza del marito. 
Ma ancora più eloquente è un passo dell’Orlando furioso dove Ariosto si dimostra oltre che finissimo poeta, acuto conoscitore dell’animo umano e psicologo ante litteram. Rinaldo, ospite in uno splendido palazzo, potrà sapere la verità su sua moglie Angelica bevendo vino da un calice magico. Se la moglie gli è fedele, demmo una goccia gli cadrà sul petto; in caso contrario… Cosa farà Rinaldo? A pochi centimetri dal fatale passo falso, Rinaldo ragionerà così: “É davvero un pazzo chi si mette a cercare ciò che non alcun desiderio di trovare, saggio o stolto che sia non voglio sapere più di quello che so”.
Un tema così appare ancora più attuale in considerazione del fatto che oggi i calici incantati e maledetti si sono prodigiosamente moltiplicati in cellulari, email e altri dispositivi elettronici tanto da riattualizzare il racconto biblico per cui infrangendo il comandamento di Dio e mangiando il frutto della conoscenza Adamo piombò dalla gioia nell’afflizione (anche lì si trattava di un Paradiso, ormai direbbe Milton “perduto”.
Sfiorando l’abisso, Rinaldo decide di essere felice allontanando da sé il calice stregato; Principe o Serpente biblico dobbiamo resistere alla tentazione di cedere alla “volontà di sapere”. Come dice Emanuele Trevi, “l’amore consiste in tutto ciò che non sappiamo di chi amiamo”. Essendo creature imperfette, lacerate e dissonanti non rendiamo più complicata la vita e impariamo da Ariosto usando la sua saggezza evitando l’errore di “Chi quel che non vorrai trovar, cercasse”.

13 settembre 2018


CHI VUOL ESSER LIETO SIA...

Vi avevamo detto in sede di anteprima sulla pagina omonima di Facebook che avremmo parlato di "finestre" perchè le nostre intenzioni erano di capire, a proposito delle nostre relazioni sociali, quante cose di noi riveliamo, quante altre nascondiamo, e altre ancora non sappiamo ma che coloro che ci conoscono invece vedono di noi. Questa specie di giochino non è un abracadabra o una magia ma uno strumento che permette in maniera abbastanza agevole di conoscere meglio se stessi e gli altri. 
Invece desideriamo parlarvi di Felicità. In queste ultime settimane è girato uno spot televisivo (quello sopra) che provava a misurare la percentuale di felicità contenuta nell'espressione di un viso, partendo da una percentuale di 0 fino a 100: l'idea di questa pubblicità progresso è che donare rende felici e che un dono può essere un balsamo dell'anima. Un signore di nome Adorno sosteneva che il nostro tempo ha smarrito l'arte del dono, tanto che - dico io - oggi è invalsa la cattiva abitudine di regalare soldi a parenti o amici in occasione di feste o matrimoni. Proprio per questo, donare è oltre che il frutto di una magnanimità d'animo anche un'idea del vivere, un paradigma sociale, un modo di situarsi nella complessità delle vicende umane. Ma se non vogliamo dar retta a Dostoevskij che sosteneva che "nulla è più difficile da sopportare di una serie di giorni felici", possiamo invece fidarci di un professore di Harvard di nome Waldinger che ha osservato dal 1938 per 75 anni la bellezza di 724 ragazzini provando a rispondere a questa domanda: Che cosa vi ha reso felici? La ricerca dell'ateneo di Boston non ha dubbi: la qualità delle relazioni sociali, non il successo o l'essersi procacciati fama e ricchezza. Quelle contrassegnate da un tasso di negatività e di ostilità atrofizzano il cuore, arruginiscono il cervello e rovinano la salute, invece le buone e sane relazioni accendono il cuore, vivacizzano il cervello e  ci aiutano a mantenerci in salute.
Del resto i Greci la chiamavano eudaimonia, vale a dire "coltivare il proprio demone (daimon)" ma questo richiede tempo, dedizione, scordarsi un po' il cellulare e guardarsi di più negli occhi con chi ci sta a cuore e desideriamo rimanere nel suo. Oggi il frastuono o i clamori che somigliano a mortiferi "canti delle sirene" ci distraggono dal considerare ciò che più conta di noi stessi. Abbiamo un po' tutti bevuto l'acqua della Dimenticanza e per questo vulnus della memoria non esistono farmaci.