Il tempo di oggi in alcuni che lo pensano….
Il concetto di comunità, ma la stessa parola, hanno sempre suscitato un senso di benessere e appartenenza. Le parole di Zygmunt Bauman, nel suo libro Voglia di comunità, ci ricordano che la nostalgia per la comunità è radicata in un bisogno profondo di sicurezza. In un mondo sempre più individualizzato, cerchiamo soluzioni personali a problemi che in realtà sono sistemici. Questo tentativo di ottenere una "salvezza individuale" in risposta a problematiche comuni è una delle caratteristiche distintive della nostra epoca.
Marcello Veneziani, nel suo articolo "La Rivoluzione necessaria: da individui a comunità", sostiene che la nostra incapacità di formare comunità deriva dal fatto che non è più una forma sociale praticata e vissuta. Invece, la cultura contemporanea è dominata da un mantra ossessivo: "star bene con te stesso", "sii te stesso". Questo mantra, come sottolinea Gilles Lipovetsky, è diventato un valore di culto, quasi un feticcio.
Il problema principale è che questa enfasi sull'individuo e sul benessere personale ci allontana sempre di più dalla possibilità di costruire autentiche comunità. Invece di cercare soluzioni collettive, ci rifugiamo nella sfera personale, isolandoci ulteriormente. Questa ricerca ossessiva di benessere individuale può portarci a una falsa sensazione di felicità, ignorando le connessioni sociali che sono essenziali per il nostro benessere a lungo termine.
In un certo senso, questa situazione crea un paradosso: mentre cerchiamo di stare bene con noi stessi, ci priviamo della comunità che potrebbe offrirci un senso di appartenenza e sicurezza autentici. Il benessere individuale non può sostituire i benefici che derivano dall'appartenere a una comunità solida e solidale. La vera comunità offre supporto reciproco, condivisione di risorse, e un senso di scopo comune che nessun successo personale potrà mai compensare.
Per ritrovare la capacità di essere comunità, è necessaria una rivoluzione culturale che vada oltre il culto dell'individualismo. Dobbiamo riscoprire il valore della collaborazione e dell'impegno reciproco. Questo richiede un cambiamento nelle nostre priorità e nei nostri valori, mettendo al centro l'importanza delle relazioni umane e della solidarietà.
Costruire comunità non significa negare l'importanza del benessere individuale, ma riconoscere che il vero benessere è interdipendente. Noi dipendiamo dagli altri, e siamo anche grazie agli altri. È solo attraverso la connessione con gli altri che possiamo trovare una sicurezza autentica e duratura. Questo implica un impegno attivo nella costruzione di reti di supporto, nella partecipazione a iniziative locali, e nel riconoscere che i problemi sistemici richiedono soluzioni collettive.
In conclusione, la comunità non è un concetto nostalgico, ma una necessità urgente. Per risolvere i problemi sistemici che ci affliggono, dobbiamo abbandonare l'illusione della salvezza individuale e abbracciare l'idea che il nostro benessere è inestricabilmente legato a quello degli altri. Solo così potremo costruire una società più sicura, equa e solidale, capace di affrontare le sfide del presente e del futuro con forza e unità.
La rivoluzione da compiere, se ancora possibile evocare tale concetto, richiede un cambiamento radicale nelle nostre priorità e nei nostri valori. Dobbiamo passare dal culto dell'individualismo a una riscoperta della solidarietà e della collaborazione
28 maggio 2024
8 aprile 2024
21 marzo 2022
LA FELICITÀ SUBITO
Si può calcolare la Felicità, usando un algoritmo per saggiarne l’esistenza e la sua “modica” quantità per vivere bene? Sembra di sì, almeno è quello che fanno i paesi quando associano il Pil e la speranza di vita, definiscono attraverso le politiche di sviluppo e di crescita (che di sicuro non sono la stessa cosa) parametri in base ai quali decidere la qualità della vita e il grado di benessere delle persone.
Pensate, la Danimarca è al primo posto di questa particolare graduatoria, noi solo al 50°.
Due obiezioni: ma questi test calcolano pure il numero dei suicidi e id tasso di alcolismo per ogni nazione? E poi è stravagante la metafora di considerare i paesi come persone. Allora basterebbe valicare i confini di quel territorio e scoprire che il proprio stato d’animo e la percezione della realtà sono cambiati in meglio…
Come se non bastasse, fioccano scuole e manuali che provano a istruirci sull’ideologia del comfort e su come raggiungere il benessere in dieci mosse.
Ma come facciamo a sapere se siamo felici? Spesso accigliati e pensosi esperti provano ad ammonirci sul fatto che invece siamo infelici e sul perché lo siamo. Anche gli scrittori non scherzano, ritenendo che la felicità sia uno stato che si raggiunge attraverso il dolore e la sofferenza.
Tralasciando le altre lingue, è in italiano che il termine Felicità sembra essere assai interessante: la parola proviene dal greco φύω che significa produco, faccio essere, genero (da cui hanno origine i termini fecondo e feto) ed infine al latino foelix o felix, ossia felice cioè fecondo, fertile, ed in senso più lato, soddisfatto, appagato…
Siamo lontani, come si vede, dall’idea che la Felicità sia una condizione estemporanea, frutto del destino e imputabile alla fortuna. Al contrario, sembra piuttosto il risultato di un’aspirazione concreta, di un’intenzione progettuale, di una volontà di potenza. La Felicità così concepita diventa uno stato di pienezza, un’idea di sé (una coscienza di) che determina quella Gioia che Spinoza definisce nella sua Etica acquiescentia in se ipso, «che nasce dal fatto che l’uomo contempla sé stesso e la propria potenza di agire», e ricompare poi come «la gioia che nasce dalla contemplazione di noi stessi» e che si ripete «ogni volta che qualcuno immagina le sue azioni» o «contempla le sue virtù». Coincidendo con la Felicità, questa forma di acquiescentia si impone inoltre come «la cosa somma che possiamo sperare». La Gioia, in questo caso, sarebbe l’antidoto naturale e più efficace alle c.d. “passioni tristi” (la rabbia, la tristezza, la paura, l’indifferenza) che oggi regnano incontrastate.
Ma è il caso di chiederci se la Felicità appartenga solo a una dimensione individuale o ce ne sia una anche politica e cioè condivisa, che include la presenza dell’Altro. In un’epoca come questa, contrassegnata da una forma angusta di democrazia immunitaria in cui la protezione securitaria e sanitaria ha preso il posto della partecipazione, sono scomparsi l’Oltre (che sia esso Trascendente, Il Futuro o una qualunque Alternativa credibile all’attuale stato di vita) e anche l’Altro e ogni cosa ristagna in un clima saturo, statico, dove «il terrore (ancor più con la guerra, dopo la pandemia) è diventato atmosfera».
La pólis si allontana insieme a tutto ciò che ci unisce. Intorpidimento, dispersione, disaffezione, anestesia prolungata. In un momento così, la Gioia non può più essere rinviata. Ma per riscuoterla occorrono raccoglimento e attenzione, due virtù indispensabili per recuperare il nostro sé.
31 dicembre 2021
IL MONDO IMPOSSIBILE DELL’EMPATIA
Qualche anno fa lo psicoanalista Massimo Recalcati ha scritto una ‘kantiana’ «critica della ragion empatica» mettendo in discussione che essa possa essere considerata “come una delle forme più evolute del legame sociale”. Va da sé che nei nostri rapporti sociali l’empatia sia, nelle giuste dosi, necessaria e positiva. Ma, si chiede sempre lo studioso lacaniano, “sentire quello che il mio simile sente, condividere i suoi stati emotivi, sentirsi all’unisono è davvero la forma più positiva che può assumere la relazione con l’altro?” Non è invece necessaria una certa quota di freddezza, una ‘sana e giusta distanza? che ci permette di salvare le differenze e le identità di ciascuno?
Recalcati cita il famoso caso del padre dello scrittore Flaubert (raccontato da J.P.Sartre ne L’idiota della famiglia) che si fece operare dal suo stesso figlio. Risultato: morirà durante l’operazione, “ucciso” dal figlio. Fatto dai risvolti psicanalitici assai intriganti, sui quali Recalcati avanza alcune interessanti ipotesi.
Ma veniamo ai giorni d’oggi. Oggi l’empatia ha assunto i contorni di un’ideologia, in base alla quale l’altro diventa a noi “trasparente”, uguale a noi, totalmente e falsamente omogeneo. Diversamente dalla democrazia che è tutt’ altro che empatica perché non abolisce le differenze anzi di esse si nutre per valorizzarle.
Ma Recalcati va ancora oltre indagando anche sulla relazione genitori e figli. Paventando il pericolo di un “eccesso di prossimità” (i sistemici la chiamano “confusione”) che comprometterebbe la dimensione singolare della libertà e il sacrosanto diritto dei figli a tutelare il mistero (i “segreti”) della loro esistenza. Salutare a suo avviso sarebbe una certa dose di ‘incomprensione’ che crediamo non sarebbe piaciuta a una certa Florence Montgomery, autrice del famoso romanzo “Incompreso”.
In conclusione, lo psicanalista, citando Nietsche, fa appello a un’ “esigenza di oscurità” che sembrerebbe essere la base di ogni rispetto autenticamente altruistico, “mentre un elogio sperticato dell’empatia come capacità di immedesimazione all’altro, vorrebbe invece attenuare la solitudine della nostra singolarità rendendoci tutti più simili”.
Anche la psicoanalisi ammonisce a sospettare della spinta ad essere tutti uguali, resettando la soggettività delle differenze. Sono celebri le invettive di Jacques Lacan durante gli anni del suo insegnamento, mettendo in guardia dal pericolo di fare di una relazione tra soggetti differenti "una speculare tra simili".
Attenti a quella che qualcuno chiamava la “intimità alienata” perchè “saper stare generativamente in un legame significa anche saperne stare sempre parzialmente fuori”.
I legami più fecondi, conclude Recalcati, e duraturi “si fondano sulla capacità di stare da soli”. Ovviamente ciò non significa che le persone debbano vivere del tutte sole e abbandonate, nella nostra piena indifferenza. Solo che la loro lingua dovrà sempre continuare a rimanerci un po’ estranea…..